IMPLANTOLOGIA
Root - Form
La mancanza di uno o più denti può mettere in serio rischio la salute di tutto l’apparato masticatorio: infatti i denti vicini si inclinano nel tentativo di occupare lo spazio vuoto, mentre gli antagonisti (ossia i corrispondenti dell’arcata opposta) estrudono, ossia fuoriescono dall’osso per mancanza dello stop costituito dalla battuta occlusale. Le conseguenze sono molteplici:
1. il dente inclinato presenterà dei danni all’osso di sostegno in quanto lavorerà non più secondo il proprio asse maggiore;
2. come conseguenza della migrazione e dell’estrusione, si aprirà il punto di contatto con l’elemento vicino con danni parodontali, accumulo di cibo tra i denti, insorgenza di carie interprossimali;
3. il dente antagonista, estrudendo, andrà progressivamente ad esporre le radici all’ambiente buccale, con conseguente sensibilità e perfino forti dolori di tipo pulpare;
4. tutti i cambiamenti di posizione appena descritti creeranno dei punti di contatto anomali (precontatti traumatici) con conseguenti danni alle articolazioni temporo mandibolari ed disfunzioni di tutto l’apparato stomatognatico;
5. la funzione masticatoria si ridurrà proporzionatamente;
6. in caso di perdita di elementi anteriori, alle già citate problematiche, si aggiungono anche quelle estetiche.
Quindi i denti perduti vanno sempre rimessi. Sul come fare dipende da vari fattori che spaziano dallo stato di salute del paziente, dalle sue richieste e aspettative, dalle possibilità economiche e così via.
Certo una protesi fissa è quella più ambita dal paziente che ne apprezzerà i vantaggi in termini di assenza di ingombro, estetica, comodità nell’igiene quotidiana, ed altri vantaggi di tipo psicologico (si sentirà “più giovane” e meno “diverso” dal prossimo). Ma anche il dentista vede di buon occhio la riabilitazione fissa, che gli garantisce la sicurezza di un’elevata somiglianza funzionale con la dentatura naturale.
I problemi nascono allorquando la dentatura del paziente è mancante nei settori distali o non è in grado di sopportare dei ponti se indebolita dalla malattia parodontale. In tal caso o ci si affida alla protesi mobile, oppure ci possono venire in aiuto gli impianti.
Questi permettono di rimettere i denti mancanti con risultati molto simili alla dentatura naturale: infatti, come succede per la radice, anche l’impianto trova sostegno e stabilità nell’osso nel quale, grazie a particolari caratteristiche (forma, rivestimento superficiale, materiale, tipo di guarigione), si integra formando un tutt’uno con esso (osteointegrazione).
Secondo i casi è possibile inserire uno o più impianti, per sostituire un solo dente, più denti, o tutti i denti della bocca.
Grande importanza ai fini della buona riuscita dell’implantologia, riveste la fase della diagnosi, dove, la perizia del dentista e l’ausilio delle radiografie (ortopanoramica, endorale, tomografia), deve giudicare se l’osso è idoneo o meno all’intervento e, soprattutto, quale tecnica impiegare. Infatti, come è vero che non esiste un solo tipo di paziente è anche vero che non può esistere un solo tipo di impianto “universale”. Questo perchè ogni bocca presenta delle particolari ed uniche caratteristiche ed è solo in base a tali caratteristiche che va scelto l’impianto giusto. Ecco perché nei miei corsi di implantologia Master (quelli dedicati ai medici odontoiatri già laureati) tengo sempre a raccomandare gli allievi di non limitarsi alla conoscenza di un unico sistema implantare, ma di differenziare l’offerta per il paziente mediante l’adozione ed approfondimento di almeno 5 forme base:
1. La Root form (letteralmente “della forma della radice dentaria”) sommersa a superficie in titanio, di impiego generale;
2. La Root form emergente, anch’essa di impiego generale che, a differenza della precedente, non richiede un secondo intervento chirurgico per la sua esposizione a fine guarigione;
3. La Root form sommersa a superficie in Idrossiapatite, ad uso in caso di osso scarsamente mineralizzato;
4. Gli aghi di Scialom, sottili e profondi, che permettono di inserire impianti anche in creste ossee di solo 3 millimetri di spessore;
5. Le viti autofilettanti a spira larga che richiedono pochissima asportazione di osso per il loro alloggiamento.
Chi al contrario si limita ad adoperare un solo tipo di impianti è costretto a circoscrivere la propria attività ad un selezionato gruppo di pazienti idoneo ad accogliere quella determinata forma, oppure dovrà cercare di adattare e modificare l’osso del paziente accettando delle soluzioni e dei compromessi spesso non ottimali.
La tecnica implantare ad oggi più diffusa è quella che prevede l’utilizzo degli impianti chiamati “root-form” che, pur con delle varianti da costruttore a costruttore, presentano le seguenti caratteristiche:
1. forma cilindrica o lievemente conica
2. composizione in due pezzi (impianto e moncone separato)
3. intervento chirurgico a “cielo aperto” ossia con lo scollamento della gengiva dall’osso sottostante
4. tecnica in 2 fasi e tempo di attesa dell’osteointegrazione (ossia un primo intervento applica la vite senza la parte emergente detta “moncone” e, quindi, senza il carico protesico; in un secondo momento, generalmente dopo 4 – 7 mesi per permettere l’attecchimento nell’osso, si asporta il piccolo tappo che chiude la testa dell’impianto e si applica, avvitandolo, il moncone su cui verrà confezionata la protesi fissa)
Ciò significa dover attendere da 5 a 8 mesi da quando si pianifica l’intervento a quando si cementa il dente definitivo.
E non sempre questo viene accettato dal paziente.
Ma ci sono delle tecniche e degli impianti diversi che riescono a bypassare molti inconvenienti delle tecniche tradizionali. E si rimanda per questo al capitolo dell’implantologia multitipo.
L’inserimento dell’impianto avviene con un intervento in anestesia locale, con minimo disagio per il paziente, legato più alla complessità dell’intervento di accesso all’osso che all’inserimento dell’impianto vero e proprio; anzi, quando è possibile lavorare “a cielo coperto” ossia senza incisione e scollamento della gengiva, i problemi legati all’intervento sono praticamente assenti.
Una volta applicata la protesi, che lo ricordiamo è una protesi fissa, la sensazione del paziente è analoga a quella che si prova con i denti naturali.
Un unico rilievo va fatto per ciò che riguarda l’igiene ed il mantenimento degli impianti, cosa che costituisce l’unico vero tallone di Achille di tale metodica. Una corretta igiene della bocca è essenziale per la buona riuscita nel tempo del trattamento: infatti la causa più frequente del fallimento di un impianto è costituita dall’infiammazione dei tessuti limitrofi, la cosiddetta “perimplantite”, che può perfino causare la perdita dell’impianto.
Sono necessari, quindi, i controlli periodici dal dentista ed una scrupolosa igiene orale professionale e domiciliare.
1. il dente inclinato presenterà dei danni all’osso di sostegno in quanto lavorerà non più secondo il proprio asse maggiore;
2. come conseguenza della migrazione e dell’estrusione, si aprirà il punto di contatto con l’elemento vicino con danni parodontali, accumulo di cibo tra i denti, insorgenza di carie interprossimali;
3. il dente antagonista, estrudendo, andrà progressivamente ad esporre le radici all’ambiente buccale, con conseguente sensibilità e perfino forti dolori di tipo pulpare;
4. tutti i cambiamenti di posizione appena descritti creeranno dei punti di contatto anomali (precontatti traumatici) con conseguenti danni alle articolazioni temporo mandibolari ed disfunzioni di tutto l’apparato stomatognatico;
5. la funzione masticatoria si ridurrà proporzionatamente;
6. in caso di perdita di elementi anteriori, alle già citate problematiche, si aggiungono anche quelle estetiche.
Quindi i denti perduti vanno sempre rimessi. Sul come fare dipende da vari fattori che spaziano dallo stato di salute del paziente, dalle sue richieste e aspettative, dalle possibilità economiche e così via.
Certo una protesi fissa è quella più ambita dal paziente che ne apprezzerà i vantaggi in termini di assenza di ingombro, estetica, comodità nell’igiene quotidiana, ed altri vantaggi di tipo psicologico (si sentirà “più giovane” e meno “diverso” dal prossimo). Ma anche il dentista vede di buon occhio la riabilitazione fissa, che gli garantisce la sicurezza di un’elevata somiglianza funzionale con la dentatura naturale.
I problemi nascono allorquando la dentatura del paziente è mancante nei settori distali o non è in grado di sopportare dei ponti se indebolita dalla malattia parodontale. In tal caso o ci si affida alla protesi mobile, oppure ci possono venire in aiuto gli impianti.
Questi permettono di rimettere i denti mancanti con risultati molto simili alla dentatura naturale: infatti, come succede per la radice, anche l’impianto trova sostegno e stabilità nell’osso nel quale, grazie a particolari caratteristiche (forma, rivestimento superficiale, materiale, tipo di guarigione), si integra formando un tutt’uno con esso (osteointegrazione).
Secondo i casi è possibile inserire uno o più impianti, per sostituire un solo dente, più denti, o tutti i denti della bocca.
Grande importanza ai fini della buona riuscita dell’implantologia, riveste la fase della diagnosi, dove, la perizia del dentista e l’ausilio delle radiografie (ortopanoramica, endorale, tomografia), deve giudicare se l’osso è idoneo o meno all’intervento e, soprattutto, quale tecnica impiegare. Infatti, come è vero che non esiste un solo tipo di paziente è anche vero che non può esistere un solo tipo di impianto “universale”. Questo perchè ogni bocca presenta delle particolari ed uniche caratteristiche ed è solo in base a tali caratteristiche che va scelto l’impianto giusto. Ecco perché nei miei corsi di implantologia Master (quelli dedicati ai medici odontoiatri già laureati) tengo sempre a raccomandare gli allievi di non limitarsi alla conoscenza di un unico sistema implantare, ma di differenziare l’offerta per il paziente mediante l’adozione ed approfondimento di almeno 5 forme base:
1. La Root form (letteralmente “della forma della radice dentaria”) sommersa a superficie in titanio, di impiego generale;
2. La Root form emergente, anch’essa di impiego generale che, a differenza della precedente, non richiede un secondo intervento chirurgico per la sua esposizione a fine guarigione;
3. La Root form sommersa a superficie in Idrossiapatite, ad uso in caso di osso scarsamente mineralizzato;
4. Gli aghi di Scialom, sottili e profondi, che permettono di inserire impianti anche in creste ossee di solo 3 millimetri di spessore;
5. Le viti autofilettanti a spira larga che richiedono pochissima asportazione di osso per il loro alloggiamento.
Chi al contrario si limita ad adoperare un solo tipo di impianti è costretto a circoscrivere la propria attività ad un selezionato gruppo di pazienti idoneo ad accogliere quella determinata forma, oppure dovrà cercare di adattare e modificare l’osso del paziente accettando delle soluzioni e dei compromessi spesso non ottimali.
La tecnica implantare ad oggi più diffusa è quella che prevede l’utilizzo degli impianti chiamati “root-form” che, pur con delle varianti da costruttore a costruttore, presentano le seguenti caratteristiche:
1. forma cilindrica o lievemente conica
2. composizione in due pezzi (impianto e moncone separato)
3. intervento chirurgico a “cielo aperto” ossia con lo scollamento della gengiva dall’osso sottostante
4. tecnica in 2 fasi e tempo di attesa dell’osteointegrazione (ossia un primo intervento applica la vite senza la parte emergente detta “moncone” e, quindi, senza il carico protesico; in un secondo momento, generalmente dopo 4 – 7 mesi per permettere l’attecchimento nell’osso, si asporta il piccolo tappo che chiude la testa dell’impianto e si applica, avvitandolo, il moncone su cui verrà confezionata la protesi fissa)
Ciò significa dover attendere da 5 a 8 mesi da quando si pianifica l’intervento a quando si cementa il dente definitivo.
E non sempre questo viene accettato dal paziente.
Ma ci sono delle tecniche e degli impianti diversi che riescono a bypassare molti inconvenienti delle tecniche tradizionali. E si rimanda per questo al capitolo dell’implantologia multitipo.
L’inserimento dell’impianto avviene con un intervento in anestesia locale, con minimo disagio per il paziente, legato più alla complessità dell’intervento di accesso all’osso che all’inserimento dell’impianto vero e proprio; anzi, quando è possibile lavorare “a cielo coperto” ossia senza incisione e scollamento della gengiva, i problemi legati all’intervento sono praticamente assenti.
Una volta applicata la protesi, che lo ricordiamo è una protesi fissa, la sensazione del paziente è analoga a quella che si prova con i denti naturali.
Un unico rilievo va fatto per ciò che riguarda l’igiene ed il mantenimento degli impianti, cosa che costituisce l’unico vero tallone di Achille di tale metodica. Una corretta igiene della bocca è essenziale per la buona riuscita nel tempo del trattamento: infatti la causa più frequente del fallimento di un impianto è costituita dall’infiammazione dei tessuti limitrofi, la cosiddetta “perimplantite”, che può perfino causare la perdita dell’impianto.
Sono necessari, quindi, i controlli periodici dal dentista ed una scrupolosa igiene orale professionale e domiciliare.